Éder Citadin Martins, centravanti con la valigia



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11 feb 2017

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Gambe in spalla e sudore, MondoFutbol.com ripercorre la carriera dell'attaccante nerazzurro dal Moleque Bom de Bola alla Serie A


MILANO - "Per me calciatore è sinonimo di vagabundo. O loro o me sulla nave". Fu questa la risposta che si sentì ricevere da Ruy Barbosa, il ministro delle Relações exteriores Lauro Müller, all'alba del Campeonato Sudamericano de Selecciones 1916, l'antesignano della Copa América. Il Brasile, impegnato nella prima guerra mondiale, era a corto di imbarcazioni e la Seleção aveva bisogno di un "passaggio" per raggiungere l'Argentina e sfidare le grandi del continente. Permesso negato, faticoso viaggio in treno e trofeo, la Copa Murature, all'Uruguay di Isabelino Gradín.

Al di là del curioso aneddoto, fa specie scoprire che, qualche anno dopo, altri giramondo, per lo più italiani, si stanziarono a sud del Paese e posero le basi di una città che del diplomatico d'origine tedesca avrebbe ereditato il toponimo e, nel 1986, dato alla luce Éder Citadin Martins. Discendente di una famiglia di immigrati vicentini trasferitasi in Sudamerica per guadagnarsi da vivere nelle miniere di carbone, viaggiare e faticare sono da sempre i due verbi che formano la struttura del DNA del centravanti nerazzurro. Il futsal, come per tanti brasiliani, fa da genoma e da trampolino per il calcio a 11.

Galeotto fu il Moleque Bom de Bola, un torneo studentesco studiato dal Governo di Santa Catarina per promuovere la cultura della pace e l'attività agonista giovanile nei territori dei barriga-verde: l'adolescente Éder incrocia le maglie del Criciúma, le stesse indossate da ragazzo da Maicon Douglas Sisenando, sigla una doppietta e dà il la ad un amore intenso ma breve. Con il Tigre gioca tre anni, entrando fin da subito nelle grazie del tecnico Luiz Carlos Barbieri, il quale ne apprezza la velocità e la potenza, due caratteristiche in comune con Éder Aleixo, l'ala mancina del Brasile '82 a cui il nostro deve il nome di battesimo. Con Barbieri, nonostante un infortunio importante (frattura della clavicola), nel 2005 vince il campionato statale ma retrocede in Série C nel nazionale.

Un'amarezza smorzata dalla chiamata dell'Empoli, lesto ad anticipare la concorrenza del Lecce di Corvino. I toscani lo aggregano alla Primavera, lo fanno maturare al Frosinone, e lo riportano a casa nel 2009-10, nella stagione della promozione in A. Una categoria che Éder saggia altrove, prima al Brescia e poi al Cesena. Ai tifosi di quest'ultimo, dopo aver fatto festa all'Olimpico di Torino e di Roma con le Rondinelle, si presenta a carte scoperte: "Sogno un gol a San Siro".

Un desiderio che, però, si realizza solo qualche anno più tardi, con la maglia della Sampdoria, quando buca le porte dell'Inter e del Milan, sempre in zona Cesarini. Marcature comunque amare perché non portano punti ai blucerchiati. Di tutt'altro sapore, invece, l'esultanza dello scorso aprile quando alla sua gioia si è unita quella di gran parte del pubblico presente per sostenere l'Inter. Normale per uno che si è guadagnato la Scala del Calcio, a forza di sgroppate furiose e ripiegamenti, sacrificando qualche soddisfazione personale pur di rendersi più utile alla squadra. Ne è un esempio la strepitosa (e sfortunata) semifinale di Coppa Italia 2015/16 contro la Juventus, spaventata dai movimenti continui dell'oriundo, riproposto centravanti centrale come all'origine.

Gambe in spalla e sudore. Un bagaglio povero ma resistente, compagno fedele anche di chi partiva verso l'Ovest in cerca di fortuna. "Siamo rivati in Lá Mérica", cantavano i primi emigrati giunti nella provincia di Santa Catarina, poveri e semi-analfabeti. Éder, al contrario, ha trovato la sua lingua nel gol e in Italia l'Eldorado. E l'Inter non anela altro per lastricare di bellezze il suo cammino verso l'Europa che conta.

Aniello Luciano

 

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