Letters to Inter - Nicola Berti



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30 mar 2020

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Lettera da un interista agli interisti: inizia con Berti il nostro viaggio in nerazzurro


Era il novantesimo, la partita era vinta. Ma c’era un pallone a mezz’aria. Io sono Nicola Berti, non potevo lasciarlo andare. Non potevo evitare di andare a contenderlo. Non potevo tirarmi indietro, mai. Dovevo buttarmi.

Stac.

Ne avevo sentite tante, di boiate. Quelli che si lamentavano dopo gli infortuni, quelli che dicevano: “Chissà quando tornerò in campo”. Io mi sono rotto il legamento e ho detto: bene, questa è una cosa che voglio affrontare. L’ho preso di petto. Mi sono messo su un aereo, sono volato negli Stati Uniti, a Vail, in Colorado. Il dottor Steadman mi ha accolto nella sua clinica costruita direttamente sulle piste da sci. Non ho avuto nemmeno il tempo di pensare, dopo 4 mesi e mezzo già correvo. Io l’infortunio me lo sono mangiato.

Avevo lasciato l’Inter l’8 settembre 1993 da prima in classifica, l’ho ritrovata – mai successo prima – in lotta per la salvezza. Chiedete ancora adesso a Gianpiero Marini, cosa ne pensa, del mio ritorno. Sì, sono stato decisivo. Rientro con il Lecce, aprile, sempre l’8, e segno il 4-1, in tuffo, di testa: l’Inter non vinceva da una vita. Avevo le gambe un po’ imballate e infatti salto l’andata della semifinale di Coppa Uefa contro il Cagliari: perdiamo 3-2. Al ritorno gioco, a San Siro. Domino: procuro il rigore del vantaggio, segno il 2-0, vinciamo 3-0 e voliamo in finale. Tutto nonostante la marcatura a uomo, asfissiante, di Marco Sanna. Berti era tornato.

Sì, ero tornato e con me era tornata l’Inter. Fa specie dirlo, ma ci siamo salvati (anche grazie a un altro mio gol, contro la Roma). Pensate la genialità: Mai stati in B, grazie a Nicola Berti!

Non era mica finito il mio lavoro. A Vienna, finale di Coppa Uefa, Sosa batte veloce. Indossavo il 9, quel giorno. Controllo un po’ goffo, girata perfetta. 0-1 e tutti a casa, in attesa dell’apoteosi a San Siro qualche giorno dopo.

Sono partito da qui, ma potevo partire da Salsomaggiore, da Combisalso, l’oratorio che mi ha permesso di incanalare le mie energie in un campo definito, anziché affannarmi dietro a palloni persi per strada. Ero già forte. E avevo già il ciuffo, certo. Solo due persone potevano permetterselo: Elvis Presley e Nicola Berti. Correvo, ciuffo al vento, ah se correvo. Nelle corse campestri ero sempre ai primi posti. Avevo una predisposizione naturale, ero resistente. Andavo.

Qualche giorno fa ho riletto le pagelle che il grandissimo Gianni Mura diede all’Inter dei record:

“Berti deve imparare a disciplinarsi, ma quando decide di avanzare è immarcabile, uno spettacolo, con la sua corsa da etiope brutta ma efficace”.

Non so se la mia corsa fosse brutta, di sicuro era tremendamente efficace. Mi sentivo un po' una gazzella, ero a mio agio anche nel caldo torrido di Usa ’94. Lì, dove tanti a fine primo tempo chiedevano il cambio, lì dove era impossibile giocare per l’umidità altissima, io pensavo a divertirmi, a godermi il momento e correre.

Che poi, per come mi muovevo in campo, una volta mi hanno scambiato persino per Aldo Serena. Non una volta qualsiasi, la prima volta. Inter-Monopoli, Coppa Italia, agosto 1988. Il mio debutto in nerazzurro, a Varese. Non lo scenario più usuale per un esordio. Arrivavo da un’estate strana: a Firenze ero l’idolo dei tifosi, tutti mi volevano comprare, Pellegrini pagò 7 miliardi per il mio cartellino. Ero già nel giro della nazionale ma una pallonata mi consentì di scoprire una malformazione al rene. Operazione, niente Europei. Ricordo la visita in ospedale di Azeglio Vicini.

Insomma, il mio debutto in quel di Varese è stato memorabile non per la mia prestazione, ma per la mia presentazione. Non indossavo i parastinchi, non erano obbligatori. Il fatto è che all’Inter non li indossava nemmeno Serena, il quale, come me, portava i calzettoni abbassati e arrotolati. Io però lo facevo per un motivo preciso: volevo dimostrare di essere coraggioso, volevo sfidare tutti.

Mi trascinavo per il campo nella partita con il Monopoli e dagli spalti molti gridavano: “Serena, devi correre!”. Peccato che quello alto, magro, calzettoni abbassati, che non correva... beh sì, ero io.

Poi di corse, per l’Inter, ne ho fatte tante. Lo scudetto ’89 lo abbiam vinto nelle prime giornate. Alla quarta 2-0 a San Siro contro la Roma: segno il gol del vantaggio. Alla quinta arriva la Samp di Vialli e Mancini. Andate a rivedervi il gol: volo, letteralmente, supero Matthäus che corre e va a concludere, mi fiondo sulla respinta di Pagliuca e segno. 1-0.

Due vittorie pesantissime, il segnale che quella squadra era la più forte, da record.

Vincere, certo, anche se io son quello del “meglio sconfitti che milanisti”. Che storie, i derby. È vero che tutti mi ricordano sempre che il mio gol più bello contro il Milan negli almanacchi figura come autorete di Sebastiano Rossi. Ma in realtà quello che ho nel cuore è quello dell’aprile ’93. Lo racconto sempre: è una canzone, non è un gol. Dura minuti e minuti. Risento, ogni volta, i rumori di San Siro, le urla sul campo. In una sola azione faccio diventare matti Maldini, Baresi e Costacurta. Vado in dribbling, faccio tunnel, subisco fallo, mi prendo una pallonata addosso e anche l’ammonizione. Roba da matti.

Sono lì, sotto la Nord, avviso tutti: adesso vi faccio gol. E faccio gol. Berti, sotto la Nord, contro il Milan. Quella è l’Inter!

A questa maglia ho voluto così bene che son stato disposto anche a cedere il mio amato 8. È vero, a volte ho giocato con il 4, a volte con il 9, l’11. Ma l’8 era il mio numero. Un giorno arriva Paul Ince, dal Manchester United e dice: “Dell’Inter conosco solo Nicola Berti”. Ovvio! Era il primo anno dei numeri fissi e dei nomi sulle maglie. Allora l’8 ce lo giochiamo a tennis, alla Pinetina. Usciamo dalla gabbia e gli dico: “Paul, sei l’ospite e sei appena arrivato, prendi pure l’8”. Berti... 18!

Non è stato semplice lasciare l’Inter. Natale ’97, sento Klinsmann per gli auguri. Giocava nel Tottenham, mi dice: “Perché non vieni qui?”. Non scendevo in campo da troppo tempo, uscivo da un periodo complicato. La malattia e la morte di mio papà erano state dure da affrontare, Moratti però mi è sempre stato vicino. Ero diventato solo un uomo spogliatoio. Accoglievo i nuovi arrivati, spiegavo loro cosa fosse l’Inter e fine, poi mi accomodavo in tribuna o in panchina. L’ultima, in Inter-Juventus 1-0, 4 gennaio 1998. Pochi giorni dopo c’era un derby di Coppa Italia. Solitamente sarebbe stata la mia partita. Ricordo, di quei giorni, un solo colore: il grigio del cielo, uguale quello dei miei sentimenti. Stava svanendo tutto, sotto la pioggia gelida e tra la nebbia che voleva impedire al mio aereo di partire, direzione Londra. Che addio in sordina, per Berti, pensavo. Ero triste, ma era giusto andare.

È stato lungo, il viaggio, prima di rimettere i piedi dentro San Siro. Mi ha portato fino dall’altra parte del mondo. Ma mancava un pezzo, tutto doveva tornare al proprio posto. Arrivo al Meazza una domenica, accompagnavo una scuola calcio. Mi sistemo al primo arancio e in un attimo capisco che tutta la Curva Nord si accorge della mia presenza. La partita scorre, i tifosi non fanno altro che guardare me e intonare:

“E facci un gol, e facci un gol, Nicola Berti facci un gol”. Mi hanno ridato tutto.

E ancora oggi per strada, ovunque, sento l’affetto, cammino tra l’entusiasmo che non finsice mai degli interisti che sanno che ho corso per loro, che per loro mi sono fatto male e mi sono rialzato. Che ho vinto per loro, ho vinto per noi, interisti.

Forza Inter, sempre!

Nicola Berti


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